Francesca racconta la sua esperienza di emigrazione in Canada negli anni ’60. Il matrimonio con quel ragazzo emigrato a Toronto nel 1957, il viaggio e le aspettative di un futuro migliore.
Non era la prima volta che lasciavo il mio mondo lucano.
Da piccolissima, tanto da ricordarlo appena, con la mia famiglia, mi ero trasferita in una grande città: Torino.
Era il 1940, avevo due anni e c’era la guerra; mio padre Rocco Luigi, classe 1909, era stato reclutato come operaio in una fabbrica che produceva scarpe per soldati. La sua esperienza come garzone di un maestro calzolaio lo aveva salvato dagli orrori della seconda guerra mondiale.
Le scarpine, quelle sì che me le ricordo; sembravano quelle delle bambole.
Mio padre le realizzava per tutti noi durante il tempo libero.
Torino era una realtà molto diversa, moderna. Era stato difficile trovare una casa in affitto. Eravamo italiani, ma meridionali; stranieri nella nostra stessa patria.
Comunque ci sistemammo dignitosamente.
Eravamo in cinque, io Maria Francesca, la più piccola dei tre figli, frequentavo l’asilo insieme a mio fratello Luigi, mentre mia sorella Addolorata era la maggiore.
Mia madre, Maria, a un certo punto aveva persino iniziato a lavorare per alcune ore della giornata in una fabbrica che produceva bottoni e questo era un segno di grande modernizzazione per noi gente del sud.
Dopo qualche anno però le incursioni aeree degli alleati divennero più intense e costrinsero mio padre a decidere di metterci su un treno che ci riportò al sicuro nel nostro piccolo paese: Montescaglioso in Basilicata.
Tornò salvo anche lui, sebbene avesse avuto l’opportunità di rimanere lì per lavorare in una grande fabbrica chiamata Fiat.
Quell’esperienza, seppur dettata da un’atrocità come la guerra, gli aveva aperto la mente e permesso un’opportunità di confronto con un’altra realtà; lo aveva reso un uomo diverso, visionario, se possiamo dire, ma sicuramente fuori dal suo tempo.
Aveva conservato però il forte senso della famiglia e soprattutto il valore delle radici che in quella occasione ebbero decisamente la meglio.
Fu mio nonno Luigi, infatti, a incidere sulle nostre scelte. Anche lui, classe 1884, era stato un emigrante, un vero pioniere perchè era andato in “Ammerica” e per ben due volte.
Una prima volta nel 1913 senza far fortuna, come diceva lui, rientrando in coincidenza proprio dello scoppiare della prima guerra mondiale. Tornato dalla guerra, trovò la sua famiglia decimata dall’epidemia di spagnola che nel 1918 anche in Lucania aveva seminato morte e dolore. La terribile peste aveva risparmiato soltanto mia nonna, Maria Addolorata, e mio padre, che raccontava di quei giorni di malattia con febbre altissima durante i quali aveva visto l’immagine di San Rocco sull’uscio della porta di casa; per il resto della sua vita gli sarebbe stato devoto.
Il dopoguerra portò fame e miseria e così nel 1921, mio nonno decise di partire nuovamente per l’America imbarcandosi da Napoli sulla nave Regina d’Italia.
In quegli anni, mio padre era un adolescente curioso e più volte scrisse a suo padre chiedendogli di poterlo raggiungere a Chicago.
Ma mio nonno, che lavorava nell’inferno delle fonderie, ignorò tale desiderio, poiché consapevole che suo figlio non sarebbe sopravvissuto alla durezza di quel lavoro e di quel mondo in cui gli italiani erano carne da macello spesso in mano a “boss” senza scrupoli. Dopo alcuni anni, fece ritorno in paese avendo guadagnato abbastanza per acquistare terreni da coltivare e una casa dignitosa.
Quella terra l’avrebbe coltivata poi mio padre tornato da Torino; e così fu almeno per un po’.
Oggi, penso spesso a come sarebbe stata la mia vita in una città del nord dell’Italia e alle opportunità che avrei potuto avere.
Mai avrei pensato che soltanto alcuni anni dopo sarei emigrata anche io, attraversando l’Oceano diretta verso una terra fredda, anzi di più, freddissima: il Canada.
Per molte giovani ragazze della mia età, un posto valeva l’altro pur di scappare via dalla miseria.
Le condizioni nel sud dell’Italia negli anni ’50 erano ancora molto difficili e i sogni offerti da quella scatola magica chiamata televisione erano benzina sul fuoco per la voglia di riscatto e di rinascita. Il destino mi stava giocando uno strano scherzo.
A volte le persone si incontrano per caso e solo dopo che tutto è compiuto si rendono conto che nulla è stato un caso.
Il tempo sembra fermarsi negli scatti fotografici che riescono a imprigionare pensieri e desideri. Come in questa.
Ero inconsapevole di quello che sarebbe accaduto quando nel 1956 un giovane ragazzo scattò questa foto. Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che sarebbe diventato di lì a poco il mio sposo. Quello che era certo è che la ragazza china al centro della foto avrebbe determinato la mia vita, la sua e quella di chi stava al di là dell’obiettivo.
Il legame che c’era tra la ragazza china al centro di quella foto e il giovane che l’aveva scattata, dopo qualche tempo si sciolse. Erano entrambi emigrati in Canada a Toronto quando successe. Lei, partita per prima, aveva chiesto un ricongiungimento finalizzato al matrimonio che però andò a monte.
Così, ormai lì, Tony, come si sarebbe fatto chiamare nel mondo americano, senza denari per il viaggio di ritorno e impossibilitato ad andare nel New Jersey dove vivevano i suoi fratelli, cercò e trovò lavoro per restare legalmente in Canada. Dopo qualche mese, scrisse una lettera a suo fratello in Italia in cui era disegnato il mio di futuro.
Era la primavera del 1958 quando un uomo con la divisa entrò nella casa dei miei genitori facendosi portavoce di una proposta di matrimonio che riguardava me e suo fratello, Tony appunto.
Oggi, tutto questo può sembrare fuori da ogni logica, ma in realtà all’epoca era molto usuale.
Accettai la proposta, sebbene con una riserva: se al nostro incontro di persona non fosse “scattato” quel qualcosa, non se ne sarebbe fatto nulla.
Ma evidentemente così non fu.
Le nostre famiglie si unirono in una sola e i miei vent’anni divennero il tempo dell’attesa. Ci volle un anno esatto prima che Antonio tornasse al paese dal Canada per il nostro matrimonio.
Era la primavera del 1959, ricordo come fosse oggi il giorno in cui mio padre lo andò a prendere dal porto di Napoli e me lo trovai davanti alla porta di casa con il cuore che mi batteva a mille.
Lo conoscevo già si intende, anche se solo di vista, ma vedermelo davanti mi diede una grande emozione.
Ci sposammo il 20 aprile del 1959 e dopo qualche settimana, una volta sistemati i documenti e superate le visite mediche presso il Consolato Canadese di Roma, fummo pronti per partire.
Non fu facile lasciare la famiglia e la mia terra, ma l’incoscienza della giovinezza e l’entusiasmo di quel nuovo inizio della vita insieme mi aiutò a far prevalere la speranza a quel dolore.
Partimmo da Napoli l’8 maggio del 1959, imbarcandoci sulla nave “Saturnia”.
Il viaggio durò 15 giorni e fu un po’ come una luna di miele, poiché ci fermammo in diversi porti europei per l’imbarco e lo sbarco dei passeggeri.
Attraversato lo stretto di Gibilterra, il mal di mare si fece sentire, seppur lenito dal profondo amore che ci stava legando.
Finalmente arrivammo al porto di Halifax nel Québec. Saremmo potuti sbarcare a New York, ma le leggi lo impedivano poiché almeno per me era il primo viaggio. Ci aspettava così un altro lungo tragitto, questa volta in treno. Durò due giorni; ci sistemarono in piccoli scompartimenti per due, con delle sedute frontali in legno non certo confortevoli. Di notte, dormivamo con i vestiti, facendo delle valigie i nostri cuscini. Tutto il giorno, invece, abbracciata a mio marito, guardavo fuori dal finestrino e, non vedendo che foreste, laghi, tronchi di alberi che rotolovano nei fiumi e qualche piccolo cimitero, chiesi a mio marito: <è questo il Canada?>. Ecco, questa fu la mia prima impressione di quella terra.
Mio marito mi sorrise e mi rispose: <aspetta di vedere Toronto, ti piacerà!>.
Quando scendemmo dal treno, ad aspettarci c’erano dei nostri conterranei, paesani come li chiamiamo noi, con i quali mio marito aveva rapporti cordiali e presso i quali aveva vissuto fino ad allora pagando una somma che comprendeva vitto e alloggio.
Mille e più i pensieri che mi passavano per la mente nel percorrere quel tragitto che dalla stazione ci portò a casa di quella famiglia, con la quale avremmo condiviso tanti momenti della nostra vita. Non avevo mai visto nulla di simile. Grandi strade, case in legno come quelle delle bambole, parchi e giardini, fabbriche e grandi negozi.
I nostri “paesani”, unico riferimento in quella terra straniera, ci accolsero nella loro casa, concedendoci la loro stanza per la nostra prima notte in quel posto così lontano da casa.
L’indomani eravamo già alla ricerca di un nostro nido. Non fu difficile trovarlo in un quartiere chiamato “Piccola Italia”. Era una casa da condividere con altre due famiglie. I proprietari, italiani di origini abruzzesi, vivevano al piano terra, noi al primo piano e un’altra famiglia in soffitta. Il bagno era comune per tutti. Gli italiani compravano case vecchie e fatiscenti che sistemavano alla meglio e fittavano in parte ad altri italiani per poter pagare il mutuo contratto. C’erano pochi canadesi in quel quartiere, non gradivano abitare vicino noi italiani che al posto dei fiori in giardino coltivavamo pomodori e fagiolini.
Comprammo ogni cosa indispensabile per mettere su casa. Dalla forchetta, al bicchiere, alla sedia per sederci, insomma tutto. Un nostro “paesano” proprietario di un negozio ci fece credito e il “boss” dell’officina in cui mio marito lavorava garantì per noi.
Mandavamo lettere e fotografie alle nostre famiglie in Italia per rassicurarli che stavamo bene e spesso insieme alle lettere mettevamo qualche dollaro per la sopravvivenza di chi era rimasto.
Attraverso quelle poche immagini, mostravamo un mondo dorato e moderno.
Ricordo il mio stupore quando per la prima volta entrai in un “supermarket”. Non avevo mai visto un carrello; io che al mio paese andavo nel piccolo negozietto vicino casa con un candido canovaccio per avvolgere pochi etti per volta di spaghetti. Stavo assistendo a quel miracolo chiamato benessere e consumismo, che aveva però un caro prezzo: lasciare la propria terra e gli affetti.
A qualche settimana dal nostro arrivo, scoprii di aspettare il nostro primo bambino.
Trascorrevo le giornate occupandomi della casa, aspettando impaziente l’arrivo di Tony, come lo chiamavo lì. Lui aveva un lavoro stabile in un’officina che realizzava manufatti di precisione per la meccanica. Mi aveva raccontato che quando si era presentato per quel lavoro, a causa della scarsa conoscenza della lingua malgrado frequentasse la scuola serale, non aveva ben compreso la domanda che il proprietario gli aveva rivolto e così lo mandò al diavolo.
Il proprietario capì che non aveva compreso e riformulò la domanda: <riesci a farmi 80 pezzi al giorno?> e solo allora Tony rispose: <te ne posso fare anche il doppio>. Conservò quel posto di lavoro per tutto il tempo, insieme a un rapporto di stima, fiducia e amicizia.
Svolgeva quel lavoro dal lunedì al venerdì, mentre il sabato lavorava da un’altra parte; ma non era finita, infatti, a volte la domenica mattina manutentava i camioncini del negozio che ci aveva fatto credito, ci pagavamo così la spesa settimanale.
La domenica pomeriggio si riposava un po’ e poi riuscivamo anche ad avere momenti di svago e socializzazione con emigranti provenienti da altre regioni italiane oltre che con i nostri “paesani”. Non abbiamo mai legato veramente con i canadesi. Eravamo italiani tra italiani, non c’era integrazione vera.
Oggi, pensando a questo, mi viene in mente di quando ormai prossima al parto, scivolai sulla neve nei pressi di casa e dovetti piano piano alzarmi da sola malgrado passassero di lì diverse persone. Non so se fosse semplice indifferenza o paura dello straniero.
L’anno dopo, ci raggiunse mio padre, che l’America l’aveva sognata sin da ragazzo e che allora aveva cinquant’anni e ancora tanta voglia di scoprire. Viveva a mezz’ora da casa nostra, aveva un alloggio nell’albergo-ristorante dove faceva il cuoco. Della cucina internazionale, lui chiaramente si occupava di quella italiana, in particolare dei primi piatti. Cucinare era sempre stata la sua passione; al paese preparava i pranzi nuziali e con i sapori autentici della nostra terra non fu difficile conquistare tutti.
Appena assunto, dovettero fargli cucire pantaloni e divisa su misura, poiché quelle disponibili non erano abbastanza grandi per lui che era un uomo panciuto e così si adattò legando i pantaloni con uno spago e coprendo la parte scoperta con un grande grembiule, fino a quando non fu pronta la sua divisa. Molti clienti canadesi chiedevano dei suoi piatti, soprattutto per il gusto del ragù di carne. Un giorno, gli chiesero di prepararne un po’ da portare via per una scampagnata. Mio padre preparò il tutto e spiegò loro che avrebbero dovuto solo cucinare gli spaghetti in abbondante acqua. L’indomani i clienti passarono da mio padre per dirgli che il sugo era stato ottimo, ma gli spaghetti non altrettanto; allora mio padre gli chiese come li avessero cucinati e loro risposero: <li abbiamo messi in acqua e poi abbiamo acceso il fornello>. Solo in quel momento scoprirono come si cucinano gli spaghetti in Italia.
La permanenza di mio padre in Canada fu per lui una bella esperienza che gli permise anche di incontrare sua “sorella di latte” a Paterson, nel New Jersey, durante un nostro viaggio per salutare il resto della famiglia.
Rintracciammo quella donna ormai adulta; sua madre era morta durante il parto, mentre suo padre era emigrato in America e così mia nonna, che aveva appena partorito mio padre, si offrì di allattarla. Dopo qualche tempo, il padre della bambina tornò per portarla per sempre in America. Quel legame fu così momentaneamente interrotto, ma mai dimenticato. Dopo cinquant’anni, si incontrarono nuovamente in un abbraccio e un pianto di gioia.
Nel 1961 avevo già due bambini, un maschio e una femmina. Questo mi impedì di lavorare e quindi di imparare anche la lingua. Nel 1962 mio marito chiese e ottenne la cittadinanza canadese, qualcosa di cui è sempre andato fiero. L’anno successivo decidemmo di ritornare in Italia, consapevoli che presto i nostri bambini sarebbero dovuti andare a scuola e un nostro ritorno in Italia sarebbe stato per loro più traumatico. Al nostro rientro, la vita non fu facile e così, nata la nostra terza figlia, mio marito decise di ritornare in America e lavorare ancora qualche anno per mettere da parte altro denaro per realizzare la nostra casa. Il caso, o forse il destino, volle che, nei giorni successivi a quello in cui erano state realizzate le fondamenta della nostra casa, arrivarono tutti i documenti utili per poter emigrare negli Stati Uniti d’America. Li avevamo attesi per tanto tempo, ma i flussi migratori in quegli anni erano stati bloccati. Scrissi una lettera a mio marito, informandolo di quell’opportunità e fu allora che decidemmo di restare per sempre nella nostra terra. Spesso penso che se quei documenti fossero arrivati soltanto sei mesi prima, la nostra vita sarebbe stata altrove. Tuttavia, mi dico fortunata per aver avuto l’opportunità di vivere nella mia amata terra di Basilicata. L’emigrazione è stata una pagina importante della vita della mia famiglia. Una pagina che è la storia di tre generazioni con un unico epilogo: il ritorno alle radici.
E’ stata comunque un’opportunità, una finestra sul mondo da cui abbiamo saputo guardare al futuro, sempre con speranza, forti dei valori che ci erano stati trasmessi. L’emigrazione rappresenta la mia gioventù, il coraggio, l’avventura. Oggi, a 82 anni restano i ricordi e la memoria, che deve essere trasferita affinchè rimanga il senso di quel sacrificio e di quei pensieri che riconducono a un unico amore: quello per la propria terra natia. Sempre.
Maria Francesca Scocuzza-Andriulli
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